giovedì 8 dicembre 2011

China & Wto secondo il China Daily

Oggi il China Daily dedica tre pagine con quattro grafici e due tabelle al decimo anniversario della Cina nell'Organizzazione Mondiale per il Commercio (Wto).

Qui sotto i titoli degli articoli dedicati all'argomento:

"China's foreign trade flourishes"
"China had fulfilled all its Wto promises"
"Nation to boost international economic ties"


giovedì 13 ottobre 2011

Google Beats Street


Copertina colorata (ed è un'eccezione) per Drudgereport che riprende un interessante articolo apparso sul sito internet di Cnbc.
Il tema è il successo di Google:


Google earnings and revenue blew past expectations, sending its shares sharply higher in after-hours trading.

Google
Getty Images

Google shares

Google Inc
GOOG
558.99 10.49 +1.91%
NASDAQ
[GOOG 558.99 10.49 (+1.91%) ] finished the day at $558.99 and jumped more than 5 percent after-hours. (Click here for the latest after-hours quote.)

"Christmas came early for Google shareholders," said Colin Gillis, an analyst at BGC Partners. "It was a great beat on the bottom line. It's not necessarily because they are controlling expenses. It's because they are driving more revenue," he said.

Le scuse del numero uno di Blackberry

Dopo tre giorni di grandi problemi sembra essere tornato tutto in ordine per chi utilizza il Blackberry.

Il numero uno di Blackberry nel video (vedi link qui sotto) chiede scusa a tutti gli utenti che utilizzano il migliore smartphone al mondo per quanto riguarda il servizio di Push Mail


http://tv.repubblica.it/tecno-e-scienze/il-capo-di-blackberry-chiede-scusa-per-i-problemi-tecnici/78173/76563

La Vodafone nei giorni scorsi ha mandato più volte questo messaggio:

"Gentile cliente, Blackberry ci ha informato di nuovi disservizi sulla mail. I problemi sono indipendenti da Vodafone. La informeremo a problema risolto" (ps: La comunicazione di ripristino non mi è mai arrivata)

Guai in vista per mr. Blackberry?

mercoledì 12 ottobre 2011

Primarie repubblicane, si vota il 6 dicembre?

Primarie repubblicane, si vota il 6 dicembre?


Da http://www.sos.nh.gov/Why%20New%20Hampshire%20is%20First%2010.12.11.pdf

Documento molto interessante del Segretario di Stato del New Hampshire:

Why New Hampshire’s
Primary Tradition Is Important
By William Gardner, New Hampshire Secretary of State
October 12, 2011

martedì 11 ottobre 2011

Molinari & la New York tricolore


Dai quotidiani del gruppo Athesis

New York oggi si è svegliata italiana

di Simone Incontro

RADICI. Identità storica nel sogno americano Gli oltre tre milioni di newyorkesi di origine italiana festeggiano il Columbus Day. Dagli emigranti mazziniani, quanta strada

10/10/2011

Oggi è in festa la seconda città italiana al mondo: New York. Solo tra il 1900 ed il 1920 si contarono circa quattro milioni di italiani che misero piede a Ellis Island. Per decenni, il numero di coloro che a New York si potevano considerare italiani era superiore alla stessa popolazione di Roma. Il tricolore non passa di moda. Anche oggi la sfilata del Columbus Day sulla Fifth Avenue sarà aperta dai bersaglieri con il tricolore dal motto mazziniano «Dio e Patria»: la prima ondata di emigrazione italiana in America, nell'Ottocento, fu quella dei fuoriusciti politici.

Il Columbus Day è il momento in cui gli italiani di New York celebrano la loro identità. Sono in decine di migliaia a ritrovarsi all'incrocio fra la 47esima Strada e la Fifth Avenue per marciare verso nord, fino alla 72esima Strada, celebrando il giorno del 1492 in cui il navigatore genovese Cristoforo Colombo scoprì l'America. La festa italoamericana cade ogni secondo lunedì di ottobre, viene proclamata dal presidente degli Stati Uniti ed è celebrata in tutto il Paese.

«Se è vero che ogni gruppo etnico-religioso ha il giorno della propria parata a New York», scrive Maurizio Molinari nel suo ultimo libro Gli italiani di New York (Laterza, 267 pagine), «gli italiani si distinguono per due caratteristiche: la soverchiante presenza nei corpi di polizia, simbolo d'integrazione raggiunta, e le macchine d'epoca, in gran parte Ferrari e Maserati, considerate il fiore all'occhiello del Made in Italy». Molinari, corrispondente a New York per La Stampa, quattro anni dopo Gli ebrei di New York (sempre edito da Laterza), sposta la sua attenzione sugli italiani che vivono nella Grande Mela.

Ne esce un ritratto della più grande città italiana degli Usa: 3.372.512 newyorkesi di origine italiana, che rappresentano il 16% dei 21,2 milioni di abitanti della Grande New York, ovvero il primo gruppo etnico-linguistico nell'area urbana che include New York, Nord New Jersey e Long Island.

Chi sono gli italiani di New York e qual è il rapporto con la loro madrepatria? Parlano ancora l'italiano o lo hanno abbandonato definitivamente per l'inglese? Molinari cerca di rispondere a questi interrogativi e avverte fin dall'inizio il lettore, scrivendo che New York somma e sovrappone le identità italiane passate e presenti perché non tutti gli italiani che vi vivono condividono la stessa dimensione storica. Si passa dai top manager delle grandi banche d'affari, arrivati negli ultimi 20 anni, agli artigiani che confezionano dolci seguendo ricette che in Sicilia si tramandano da generazioni. Molinari accompagna i lettori nei luoghi immortalati in decine di romanzi e film, da dove però spesso usciva l'immagine di un popolo di mafiosi e cafoni. Oggi, con qualche eccezione, non c'è più razzismo antitaliano e sono cambiati i luoghi dove vivono i nostri connazionali. A partire dagli anni Cinquanta la Little Italy di Manhattan si è svuotata a favore di Brooklyn e, una generazione dopo, lo stesso spostamento in cerca di quartieri migliori ha portato gli immigrati di seconda e terza generazione a Staten Island e nel New Jersey. È sopravvissuta solo Arthur Avenue, nel Bronx, come roccaforte di italianità, che resiste ai nuovi arrivati albanesi e messicani. Ciò che continua a distinguere gli italiani di New York, secondo Molinari, è l'energia con cui difendono la loro identità. Si ritrovano infatti in una miriade di feste religiose, club e sodalizi, ognuno dei quali si richiama a un'origine geografica che va oltre le regioni e si declina in città, paesi, villaggi e frazioni urbane. Il risultato è un universo di voci e valori nel quale le contraddizioni fioriscono.

Continua
http://www.bresciaoggi.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/295641__new_york_oggi_si__svegliata_italiana/

giovedì 6 ottobre 2011

Sarah Palin non corre (per ora)


Con una lettera aperta indirizzata ai propri sostenitori, Sarah Palin ha annunciato mercoledì la sua decisione definitiva di non correre per la nomination repubblicana nel 2012.

La rinuncia della ex governatrice dell’Alaska mette con ogni probabilità la parola fine alla prima fase delle selezioni nel Partito Repubblicano a meno di tre mesi dall’avvio della stagione delle primarie.

Dal sito de La Stampa si legge inoltre che "la decisione è stata comunicata in anteprima al noto programma radiofonico conservatore condotto da Mark Levin il giorno successivo all’annuncio di Chris Christie, che, a sua volta, ha declinato i ripetuti inviti a entrare in gara e rimarrà, invece, al suo posto di governatore del New Jersey".

Sembra sempre più delinearsi una corsa a due: Rick Perry vs. Mitt Romney.

Steve Jobs, l'America che sogna e crea



Domenica 22 Marzo 2009

Simone Incontro

E' notte fonda a Shanghai quando saliamo sul taxi e l'autista, dopo qualche minuto, ci sorprende mostrandoci un telefonino: è il nuovo iPhone, il palmare della Apple. E' possibile che l'ultima diavoleria di steve jobs riesca a stregare un tassista cinese che lavora giornate intere per portarsi a casa un misero stipendio?

Ebbene anche lui, risparmiando, può usare il suo nuovo iPhone per navigare in Internet, ascoltare musica, scattare fotografie e parlare con gli amici. Anche lui pensa che quello che possiede non è un semplice cellulare, ma un oggetto di culto. E così vale per Apple II, l'iPod e iTunes.

L'artefice di tutte queste creazioni è Steve jobs, l'uomo che dagli anni Settanta a oggi ha rivoluzionato l'informatica, il cinema d'animazione e la musica digitale. E' lui l'imprenditore in grado di trasformare un'azienda sull'orlo della bancarotta in una macchina d'affari con 18 miliardi di dollari di liquidità e zero debiti.
E' lui il volto di quell'America descritta dal giornalista Fareed Zakaria nel libro L'era post-americana (Rizzoli, 2008): un'America, positiva, in grado di poter ispirare ancora il mondo intero. L'imprenditore californiano è il protagonista di una storia straordinaria, segnata da molti successi, ma impastata anche di sconfitte e dolore. Abbandonato dai genitori alla nascita - il padre era un professore siriano in California, la madre una studentessa - Jobs non ha mai avuto una vita facile: prima "derubato" dei suoi successi tecnologici da Bill Gates, poi cacciato dagli stessi manager che lui aveva chiamato a gestire la Apple e, di recente, il tumore al pancreas, proprio nel momento di una nuova apoteosi per l'incredibile successo dell'iPod.
Solo una volta, nel 2005, jobs ha rotto il riserbo sulla sua vita privata, con uno straordinario discorso davanti agli studenti di Stanford nel quale ha raccontato la sua infanzia difficile, l'incubo del cancro e il modo in cui, più di vent'anni fa, ha trasformato una sconfitta in energia creativa.
Sbattuto fuori dalla Apple, Jobs ha rischiato di perdersi, ma poi ha reagito: «Ho ricominciato daccapo e sono entrato nel periodo più creativo della mia vita. Senza quella sconfitta non ci sarebbe stata la Pixar né la NeXT, né avrei incontrato Laurene e oggi non avrei una splendida famiglia con quattro figli».
Jobs ha lasciato gli studenti con lo slogan: «Stay hungry, stay foolish», qualcosa come «Abbiate sempre fame di conoscere e sperimentare, siate anticonformisti».
Jobs ha dimostrato queste carte anche una mattina del 1997, quando l'amministratore delegato della Apple Gil Amelio convoca il capo operativo dell'azienda, allora in crisi profonda e lo mette alla porta. Lo stesso giorno torna al comando jobs, l'uomo che nel 1976 ha fondato la società in un garage della Silicon Valley, e, dalla quale, dopo aver conseguito in pochi anni straordinari successi è stato defenestrato dieci anni dopo.
Tutti i dirigenti della Apple ricordano bene quella mattina di luglio: Jobs si presenta con scarpe da ginnastica, la barba non fatta da qualche giorno e pantaloni corti. Simon e Young, gli autori di iCon, riportano che Jobs convoca i capi area con l'aria di uno che voleva continuare un lavoro lasciato a metà la sera prima e chiede loro a bruciapelo: «Cos'è che non funziona in questo posto?».
Alla seconda risposta impacciata interrompe l'interlocutore urlando: «I prodotti! I prodotti non attirano, non sono sexy, fanno schifo!».
In poco tempo Jobs cambia il destino della Apple, grazie anche alle tecnologie di NeXT, l'azienda che lui stesso aveva fondato durante l'"esilio", mentre in parallelo, faceva crescere anche la Pixar, la società cinematografica di successo dell'animazione digitale (Toy Story, Nemo, Monsters & Company fino agli Incredibili e a Cars). Ora, dopo più di dieci anni, l'unica incognita della Apple è legata alla salute del suo fondatore, apparso visibilmente dimagrito.

Il 5 gennaio scorso
jobs ha detto, infatti, di essere affetto da uno squilibrio ormonale. Pochi giorni più tardi ha reso noto di volere prendere una pausa dal lavoro di cinque mesi e le uniche parole che ha detto sono state: «Perché non mi lasciate in pace? Perché tutto questo è così importante?».

mercoledì 5 ottobre 2011

Perry's Back?


Lo davano già per morto (politicamente). Ed ecco qui la notizia più importante della settimana per quanto riguarda i Repubblicani.

Rick Perry ha raccolto un sacco di soldi per la sua campagna elettorale: ben 17 milioni di dollari in meno di 50 giorni.

Da Drudge Report:

EXCLUSIVE: Republican White House hopeful Rick Perry raised over $17 million in 49 days, DRUDGE has learned. $347,000 per day; 20,000 unique donors from all 50 states, DC, Puerto Rico, and Guam. With more than half of donors living outside of Texas... Developing...

NOTA: Karl Rove, lo stratega delle campagne elettorali di George W. Bush diceva: "Per vincere le elezioni servono tre cose: soldi, soldi e soldi"


lunedì 3 ottobre 2011

E' da prima

http://www.bresciaoggi.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/293519___da_prima/


È DA PRIMA
MEDIA. Al festival di «Internazionale» dibattito sul futuro dei giornali
«Page One», film-verità sul «New York Times». Tempi duri per l'informazione: internet galoppa, ma a dirla con Humprey Bogart c'è sempre «la stampa, bellezza»
03/10/2011
Zoom Foto
Il nuovo grattacielo del New York Times, progettato da Renzo Piano

Simone Incontro
FERRARA


Nessuno è intoccabile, e dopo il crollo di colossi della finanza, considerati «troppo grandi per fallire», come Lehman Brothers e Bear Stearns, anche il New York Times, il colosso del giornalismo, fa i conti con la crisi.

Arthur Ochs Sulzberger Jr. presidente della casa editrice, nel 2007 al forum di Davos affermò di non essere affatto sicuro che nel giro di cinque anni ci sarebbe stato ancora un Times di carta. Davvero? Il regista Andrew Rossi ha ripreso con le telecamere per un anno intero quello che è considerato il tempio del giornalismo mondiale.

Il risultato è il documentario Page One: A Year Inside the New York Times, presentato in anteprima nazionale al Festival Internazionale a Ferrara, e in uscita in dvd nel 2012 con Feltrinelli.

La quinta edizione del festival di giornalismo organizzato dal settimanale Internazionale e dal Comune ha visto 63mila presenze, con Arundhati Roy e John Berger protagonisti dell'attesissimo incontro finale, star del giornalismo internazionale come Jason Burke e Natasha Walter, personaggi come il direttore generale di Greenpeace International Kumi Naidoo, il blogger cinese Michael Anti, Horacio Verbitsky, Pepe Escobar, Alma Guillermoprieto.

Il film Page One permette un inedito accesso al lavoro nella redazione della «Gray Lady», la Signora in grigio, com'è soprannominato il NYT, e racconta dall'interno come si sta trasformando il sistema dell'informazione nel momento di maggiore incertezza: internet sta superando la carta stampata come principale fonte di notizie. Giornalisti come il blogger Brian Stelter, l'inviato di guerra Tim Arango e il veterano David Carr raccontano la metamorfosi del mestiere mentre il loro stesso giornale lotta per restare in vita e i loro caporedattori si confrontano con le sfide poste da Wikileaks, Twitter e i tablet.

IL DOCUMENTARIO di Andrew Rossi permette di vedere l'interno del grattacielo progettato da Renzo Piano e soprattutto la squadra di fuoriclasse del Times. Uno di questi è Bill Keller, direttore del principale quotidiano della Grande Mela da luglio 2003 a settembre 2011. In questi anni aveva risollevato il giornale dagli scivoloni del predecessore — gli articoli copiati di Jayson Blair, quelli che savano per buone le informazioni ufficiali sulle presunte «armi di distruzione di massa in Iraq» — ed è riuscito a collezionare scoop e premi Pulitzer.

Ma i morsi della crisi si sono fatti sentire. In un solo anno cento giornalisti, su un totale di 1.250, hanno dovuto abbandonare il Times, la tiratura è in calo, il fatturato è sprofondato e la pubblicità ha continuato a essere latitante. Internet, in questi anni, ha messo a soqquadro l'editoria americana.

Tutto sembrerebbe dare ragione alla lunga lista dei profeti che hanno annunciato un lento e inesorabile declino della carta stampata. Non tutti però hanno indovinato. Bill Gates, per esempio, nel 1990 aveva predetto la fine dei giornali di carta entro la fine del secolo. Nel 1993 lo scrittore Michael Crichton aveva dato dieci anni di vita ai giornali tradizionali, definiti mediasauri, evocando il suo fantascientifico bestseller. Pende come una spada di Damocle la profezia di Philiph Meyer, studioso americano dell'editoria, che ha previsto «l'ultima copia del New York Times» nel 2043.

Ma non è detto che allora non riecheggi ancora la frase di Humprey Bogart a fianco delle rotative: «È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente». La neodirettrice Jill Abramson, la prima donna a ricoprire il ruolo nei 160 anni di vita del più prestigioso quotidiano al mondo, avrà il difficile compito di guidare l'evoluzione del Times in una testata poliedrica, multimediale e sempre votata all'eccellenza giornalistica. Jill Abramson, premio Pulitzer con un passato di reporter investigativa ha studiato a lungo gli aspetti tecnici del quotidiano digitale e l'integrazione fra scrittura online e quella sul giornale di carta. Il sito internet del Times è sempre il più visitato al mondo — 31 milioni di visitatori al mese — ma nel grattacielo progettato da Renzo Piano si lavora perché questo sia a vantaggio e non a scapito del giornale di carta: un milione di lettori al dì, a partire dalle 50 copie recapitate ogni mattina all Casa Bianca.


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domenica 2 ottobre 2011

Obama Fried Chicken (made in China)


Is Obama abandoning his bid for a second term in the White House and is giving Colonel Sanders a run for his money by opening a chain of fried chicken joints?

Now that's change you can't really believe in.

But in Beijing, China, a restaurant is actually calling itself OFC with a logo that looks alarmingly like the President dressed in the colonel's clothes.

Internazionale Ferrara 2011

Internet come si usa in Cina Tutti i siti in copia censurata


INFORMAZIONE. Denuncia di un blogger al festival di Ferrara
02/10/2011

Simone Incontro
FERRARA

Vecchio e nuovo giornalismo a confronto al Festival di Internazionale a Ferrara. Nel nome di Anna Politkovskaja, martire russa della carta stampata, si premia infatti un blogger come Annaa Hossam el Hamalawy, giornalista egiziano fondatore di Arabwy.org.

El Hamalawy ha raccontato la primavera araba sul web, ma non si fa illusioni sul potere dell'informazione se mancasse «la solidarietà dei cittadini liberi del mondo». Poche illusioni sulla stessa efficacia di internet esprimono il giornalista e blogger cinese Michael Anti (che si firma così, all'occidentale, ma il nome in cinese suonerebbe An-ti: di pace) e il reporter investigativo bielorusso Evgeny Morozov, autore del libro The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom.

Internet? In Cina «è una fantasticheria», denuncia Anti, «un'illusione per i milioni di navigatori che trovano nel web, al posto dei social network originali, esatte copie collocate in server cinesi. In questo modo il governo controlla il flusso di informazioni». Anche in Occidente, dice Morozov, le «lodi incondizionate a internet» fanno comodo a governanti pronti a minare la democrazia. Perché l'informazione temuta dal potere resta quella di cronisti all'antica, schierati sul posto: come al G8 di Genova nel 2001.

«Dovevano cadere molte teste e mi pare che sia mancata un'analisi approfondita da parte della politica e dei movimenti», ha affermato in proposito delle violenze Eric Jozsef di Libération. Ma invece di stare ai fatti «si è originata una retorica che non ha permesso di individuare le responsabilità».

lunedì 26 settembre 2011

Apocalisse Pakistan

L'incubo del Pakistan e i misteri mai spiegati

SAGGIO. Un'indagine sul potere a Islamabad
Un Paese con armi nucleari e militari che flirtano con i terroristi L'America deve servirsene ma la Cina ora sta facendosi avanti

di Simone Incontro
26/09/2011

Un Paese dotato di armi nucleari, ma con un'economia al disastro, un sistema politico a pezzi e un esercito che flirta con l'estremismo islamico. Un incubo strategico. Così si può riassumere il Pakistan.

Visto dall'Europa, il Pakistan appare un Paese lontano e incomprensibile. Ma gli americani sanno bene che la partita decisiva nella lunga guerra al terrorismo, inaugurata da George W. Bush poche ore dopo l'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, si decide ad Islamabad. Nel 2008 la Commissione sulle relazioni estere del Senato degli Stati Uniti definiva il Pakistan come «il Paese più pericoloso del mondo».

La relazione tra Stato e terrorismo, tra terrorismo e servizi segreti e la definizione stessa di terrorismo in Pakistan sono, per usare un eufemismo, piuttosto confuse. Il Pakistan è un alleato fondamentale dell'Occidente nella guerra al terrorismo ma anche il Paese nel quale si nascondono da oltre dieci anni i capi supremi del terrorismo islamico internazionale.

I giornalisti Francesca Marino e Beniamino Natale nel loro libro Apocalisse Pakistan (Memori, 238 pagine) ripercorrono la storia di questa nazione asiatica, raccontando le dinastie politiche dei suoi leader e i doppi e tripli giochi dei suoi servizi segreti. Apocalisse Pakistan è un saggio che ci fa comprendere come mai Osama bin Laden avesse scelto come suo rifugio proprio il Pakistan. Il leader di al Qaida non era in una caverna sulle montagne, ma in una casa confortevole e ben protetta ad Abbottabad, una città-fortino a cento chilometri dalla capitale Islamabad. Il rifugio dell'emiro si trova a poca distanza da un centro dell'esercito e da una accademia militare.

La villa è stata costruita nel 2005 e, secondo gli analisti americani, proprio con lo scopo di ospitare un soggetto importante come Osama. Anzi, è stata proprio l'eccezionalità dell'edificio a confermare i loro sospetti. Il sospetto fortissimo è che Osama abbia vissuto sotto il controllo dello Stato pachistano, anzi, ospite del suo esercito, finanziato generosamente dagli Stati Uniti.

IL SOSPETTO, inoltre, è che anche il Mullah Omar, il leader dei talebani, sia ospite di Stato nel Pakistan, protetto in qualche rifugio sicuro. Il quartiere generale dei talebani afghani è insediato al completo nel Waziristan del nord, una regione confinante con l'Afghanistan. L'esercito pachistano si rifiuta di attaccare qualunque gruppo che si ricolleghi a loro. I generali pachistani sono ancora convinti che l'unico modo per influire sull'Afghanistan sia tramite i talebani, con i quali hanno legami ventennali.
Islamabad è, nonostante tutto questo, un alleato chiave nella lotta contro i talebani nel vicino Afghanistan. È vero però che con l'uccisione di Osama, la credibilità dei militari pachistani è quasi a zero. Il presidente americano Barack Obama, dopo il raid del 2 maggio scorso contro la villa nella quale era nascosto Bin Laden, ha lasciato intendere che gli Usa hanno agito da soli e hanno informato il governo di Islamabad solo a cose fatte.

Il Pakistan si trova a cavallo fra l'Oceano Indiano e l'Asia centrale, uno spazio che l'analista americano del momento, Robert D. Kaplan, considera decisivo per gli equilibri futuri. Il Pakistan si trova all'incrocio di due assi geopolitici delicatissimi: quello fra India e Cina da una parte e quello tra Usa e Cina dall'altra.

Dal Pakistan, come scrive Dilip Hiro, autore di 32 volumi sulla storia dell'Asia, passano i tre quarti dei rifornimenti per gli oltre 100mila soldati americani e i 50mila alleati e i 100mila contractor in Afghanistan. Il Pentagono deve aver libero accesso al Paese attraverso i suoi vicini. Ora dei sei Paesi confinanti, solo tre hanno porti sul mare. Uno, la Cina, è troppo distante. Il secondo, l'Iran, è il nemico numero uno di Washington nella regione. Resta soltanto il Pakistan. Washington inoltre spesso dimentica che Islamabad ha una stretta alleanza con un'altra grande potenza, potenzialmente un realistico sostituto degli Usa, se le relazioni con Obama dovessero continuare a deteriorarsi: Pechino.

Le relazioni tra Cina e Pakistan, come sottolineano Natale e Marino, hanno avuto nel corso dei decenni uno sviluppo costante, seguendo una chiara linea che unisce tutti i governanti che si sono succeduti al potere a Islamabad, dall'autocrate Yahya Khan al socialista Zulfikar Bhutto, dal fanatico musulmano Zia ul-Haq al laico Asif Ali Zardari. Per gli autori di Apocalisse Pakistan il processo di passaggio del Pakistan dalla sfera d'influenza americana a quella cinese è vicina al compimento. Oggi circa quattro quinti dei carri armati, tre quinti degli aerei militari, tre quarti delle corvette e dei lanciamissili pachistani sono made in China. Di conseguenza, negli scorsi decenni, si è sviluppata una potente lobby pro-Pechino nelle forze armate pachistane. E quindi, non sorprende, sull'onda degli attriti con gli Usa dopo il raid di Abbotabad, che gli ufficiali pachistani abbiano permesso ai cinesi di esaminare l'elicottero «invisibile» americano andato in avaria durante il blitz e lasciato sul terreno dai Navy Seals.

Continua a leggere su larena.it
http://www.larena.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/291272__lincubo_del_pakistan_e_i_misteri_mai_spiegati/

giovedì 15 settembre 2011

Alessandro Baricco al Festivaletteratura 2011


Dai quotidiani del gruppo Athesis
http://www.bresciaoggi.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/286036__l11_settembre_ora__una_grande_narrazione/

Data di pubblicazione: 08/09/2011

«L'11 settembre? Ora è una grande narrazione»

FESTIVAL DELLA LETTERATURA. A Mantova Baricco affronta il nostro presente attraverso un saggio di Benjamin
Simone Incontro
MANTOVA

Può un saggio del 1936 sulla narrazione, spiegare l'11 Settembre 2001 e la crisi economica di questi ultimi anni? Al Festivaletteratura di Mantova sembra proprio di sì, parola di Alessandro Baricco che ieri ha tenuto un incontro sul saggio Il narratore (Einaudi) del pensatore tedesco Walter Benjamin.

Perché rivalutare quest'opera - che Baricco considera alla pari di alcuni scritti di Kant e Montaigne - ora, quasi 80 anni dopo? Per due motivi: «perché è bella e perché è un pezzo di passato che alla luce del presente sprigiona forza e luce, al pari di un prisma».

Il filosofo tedesco, secondo lo scrittore torinese, tocca i nervi scoperti del nostro tempo e ci pone due domande: dove stiamo andando e chi siamo? Nell'epoca in cui scrive Benjamin, l'Europa non ha più certezze. Ha alle spalle la prima guerra mondiale e la crisi del Ventinove. Non si raccontano più storie perché la gente ha smarrito la capacità di fare esperienza e, in aggiunta, due forze contribuiscono ad uccidere il rito della narrazione: il romanzo e l'informazione. In poco tempo, secondo Baricco, viene fatto fuori Omero. Dagli anni Novanta in poi siamo tornati, però, ad essere una comunità che si gioca sulle storie. Per Baricco compriamo e votiamo storie. «Un grande gruppo alimentare ha ideato un succo di frutta che si chiama "storia di frutta"», spiega l'autore di Barbari. «E gli Usa nel 2008 hanno scelto Obama, perché lui era e aveva una grande storia. È stato una speranza collettiva e nessuno conosceva, neppure gli elettori americani, il suo programma».

Oggi, dice Baricco, c'è una vera e propria esasperazione della narrazione e assistiamo a una continua scissione dei fatti. A contare sono le storie forti e coerenti. E che ruolo possono avere gli intellettuali? Benjamin non ha una risposta ma ci aiuta a capire. È anche il momento dell'autocritica di Baricco: una volta volevamo conservare la narrazione ma ora questa ci porta lontani dai fatti. «Non tollero l'orazione sociale in stile Saviano, non torno in televisione perché non mi quadra», afferma lo scrittore. «E con il teatro ho generato un effetto che non amo. È arrivato il momento dello sguardo duro dei fatti».

Qualche ora prima, l'83enne don Andrea Gallo, autodefinitosi «salesiano e prete del marciapiede», citava gli scritti di don Lorenzo Milani e Antonio Gramsci, le poesie di Fernanda Pivano e i testi delle canzoni di Fabrizio De André, per sostenere che stiamo vivendo tempi molto difficili ma che non tutto è perduto. «Servono intelligenza, creatività e spiritualità. Un nuovo mondo è possibile. Al centro bisogna mettere la coscienza», ha detto don Gallo a Mantova. «La politica deve essere, come mi confidava don Milani, "l'uscire tutti insieme dai problemi, partendo dagli ultimi"».

mercoledì 14 settembre 2011

L'Egitto al Festivaletteratura 2011



Dai quotidiani del gruppo Athesis
http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/286598__la_rivolta/
Pubblicato il 10/09/2011

LA RIVOLTA

FESTIVAL DELLA LETTERATURA . A Mantova le voci del Nord Africa «La primavera araba non è finita», spiega il direttore della tv Al Jaazera nel Qatar. Ala al-Aswani scrive cosa sta accadendo sul Nilo: «La libertà non si ferma»

Simone Incontro
MANTOVA

La primavera araba non è finita. È cominciata in Tunisia. Ha proseguito in Egitto, in Yemen, in Libia e in Siria e non si fermerà. In molte nazioni del Medio Oriente non è ancora arrivata, ma il cambiamento è ormai alle porte. È inevitabile. A sostenere questa tesi è il direttore del canale televisivo del Qatar Al Jazeera, Mostefa Souag, ospite del Festivaletteratura di Mantova. Per molti osservatori internazionali Al Jazeera, nata nel 1996, ha preparato e poi accompagnato il risveglio, l'emancipazione democratica del mondo arabo, mettendo a confronto le versioni ufficiali e le voci delle opposizioni, con un linguaggio sconosciuto nel mondo islamico. Dopo gli anni in cui veniva accusata di essere la portavoce di Bin Laden, durante la primavera araba di questi mesi la televisione araba ha ricevuto pubblicamente il sostegno del capo della diplomazia americana, Hillary Clinton, ed è diventata una fonte indispensabile per i media occidentali.

«Ora ci accusano di essere al soldo della Cia e del Mossad e di voler rovesciare tutti i leader arabi e in molti di questi ora non possiamo più avere corrispondenti», ha detto il numero uno di Al Jazeera. «Ci vietavano l'ingresso in Tunisia prima della rivoluzione dei gelsomini e la stessa cosa ora accade nel nuovo centro delle rivolte, la Siria».

I DITTATORI hanno ripetutamente cercato di chiudere Al Jazeera. Souag ha affermato che la sua televisione «sarà sempre aperta e libera» e ha ribadito il fatto che la rete all news del Qatar «non ha innescato alcuna rivoluzione. Ne ha solo dato notizia. Dal 1996 abbiamo dato la possibilità alla gente di avere delle notizie, informandole correttamente», ha continuato Souag, «Al Jazeera non ha cominciato la rivoluzione, ma ha reso le persone consapevoli di quello che stava accadendo nei Paesi arabi per far sì che queste persone non si sentissero isolate e con le spalle al muro».
Tra questi cittadini ci sono molti giovani. Gad Lerner, sempre a Mantova, ha ricordato che metà dei 350 milioni di arabi ha meno di 25 anni. Al Festival della letteratura ha parlato poi uno di loro: Wael Abbas. Il giovane egiziano è uno dei blogger più attivi, ben prima di quel 25 gennaio 2011 in cui piazza Tahrir si riempì di uomini e donne che gridavano basta con il vecchio regime.
«In Egitto», ha affermato Abbas, «dopo le dimissioni di Osni Mubarak la rivoluzione non è ancora finita e c'è ancora un sistema da cambiare». I social network hanno giocato un ruolo importante nella rivolta. In Egitto si è costruita una rete orizzontale, da blog a blog, da post a post, per esprimere idee ed eludere la censura. Ci sono molte persone che nutrono dubbi riguardo al futuro di queste cosiddette «e-rivoluzioni». Abbas ha ricordato che i blogger e la società civile, da ora in poi, avranno un peso decisivo, nonostante l'esercito.

PROSPETTIVE «Se durante le prossime elezioni», ha proseguito Abbas, «ci saranno brogli li denunceremo. Se chi prenderà il potere non farà l'interesse dei cittadini scenderemo in piazza, di nuovo».
Tra coloro che sono scesi in piazza c'è lo scrittore egiziano Ala al-Aswani, che, nel suo libro del 2006 Palazzo Yacoubian (Feltrinelli) aveva previsto tutto quello che sarebbe successo a Piazza Tahrir. A Mantova ha raccontato come un popolo che appariva debole, prostrato e senza speranza, un giorno abbia deciso di scendere in piazza. «La società ha rotto il cristallo della paura. Si è giunti così al momento della rivoluzione e del cambiamento. Le persone erano talmente frustrate che volevano agire per il cambiamento anche al costo della propria vita e così si sono messe a lottare per la libertà dei propri figli».
«La gente allora ha trovato coraggio di manifestare nonostante centinaia di cecchini fossero appostati giorno e notte sui palazzi», ha proseguito al-Aswani. «La morte non rappresentava più un rischio, un'idea davanti alla quale si doveva indietreggiare. C'era la volontà di convivere con la possibilità di morire. È successo a me e a milioni di persone», conclude lo scrittore, convinto che «la libertà non si fermerà».

LO SCRITTORE egiziano ha voluto poi sottolineare il ruolo delle persone povere e come tutto fosse ben organizzato nei giorni della rivolta. Un particolare può rivelare lo spirito di quei 18 giorni. «Una sera ero molto stanco e ho gettato per terra un pacchetto di sigarette in Piazza Tahrir. Mi si è avvicinata una persona che mi ha confessato di apprezzare molto la mia scrittura», ha concluso al-Aswani. «Io l'ho ringraziato. Questo giovane però mi ha consigliato di raccogliere il pacchetto e mi ha detto: "Vogliamo tutti un nuovo Egitto. E il nuovo Egitto deve essere un luogo pulito"». Anche questo sembra essere un segno di una rivoluzione che difficilmente si spegnerà presto.





domenica 7 agosto 2011

Società Rotonda

Dai quotidiani del gruppo Athesis
http://www.larena.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/277228__societ_rotonda/

SOCIETÀ ROTONDA


Ilvo Diamanti aggiorna il «Sillabario dei tempi tristi». E parla dello stravolgimento del territorio al Nord. Spunta una rotatoria? È il segnale: lì arriverà anche il cemento. Rispetto alla Germania, negli anni '90 in Italia è stata urbanizzata un'area più che doppia.

Due anni dopo l'edizione originale, Ilvo Diamanti torna a proporre il suo Sillabario dei tempi tristi (Feltrinelli, 153 pagine). Rivisitato con oltre un terzo delle parole sostituite da altre, scritte nel frattempo. Due anni dopo, il punto di vista sull'Italia dell'editorialista di Repubblica non è cambiato. Questi tempi, per Diamanti, appaiono indiscutibilmente tristi. Dominano la paura del silenzio e degli altri, la solitudine, la perdita dei confini e l'isolamento sociale alimentato dalle nuove tecnologie di comunicazione.

Il saggio si apre con il Nordest, precisamente a Caldogno, provincia di Vicenza, il paese dove Diamanti abita. Questa volta però l'autore non parla del fenomeno Lega o dell'ex locomotiva economica italiana, ma si sofferma sull'alluvione del novembre 2010. Il fiume Bacchiglione rompe gli argini poco a nord di Vicenza, allagando completamente i centri abitati di Cresole e Rettorgole. Il fiume poi, in poche ore, esonda a Vicenza allagando una grossa fetta del centro storico e bloccando sia la circonvallazione esterna sia la tangenziale Sud nonché la linea ferroviaria Milano-Venezia. In poco tempo il 20 per cento del capoluogo berico finisce sott'acqua.
Com'è possibile che sia potuto accadere un simile evento? Tra le cause, l'autore individua l'urbanizzazione che ha stravolto i luoghi «Lo spazio si è condensato e al tempo stesso liquefatto. Sovraffollato. Si è trasformato in una plaga immobiliare, una non-città, dove sono affluite centinaia e centinaia di persone. Sconosciute. A me e anche tra loro».

La provincia del Nord, un ambiente che era lontano dall'alienazione e dalla disgregazione metropolitana, scrive Diamanti, non c'è più. Finita. L'esplosione dell'economia diffusa negli ultimi vent'anni ha trasformato la zona pedemontana del Nord, in particolar modo nel Veneto, in un grande reticolo di aziende. La «megalopoli padana», l'aveva battezzata il geografo Eugenio Turri, un unico ammasso urbano «cresciuto senza un disegno. Sulla base di interessi grandi e piccoli. Con un unico esito: che la provincia, intesa come rete di piccoli centri, dotati di visibile e specifica identità, non esiste», rimarca Diamanti. «Da tempo, ormai. Ma negli ultimi anni tutto ciò è diventato più evidente. Anche a chi ci vive».

Si è assistito a una rivoluzione immobiliare del territorio. Diamanti, riportando i dati del Centro di documentazione dell'architettura e del territorio del Politecnico di Milano (Cedat), evidenzia come negli anni Novanta le costruzioni in Italia hanno sottratto all'agricoltura 2,8 milioni di ettari di suolo. Ogni anno si consumano 100mila ettari di campagna (il doppio della superficie del Parco nazionale dell'Abruzzo). Ragionando sui dati dell'Eurostat di Germania e Francia, emerge che negli anni Novanta l'Italia ha urbanizzato un'area più che doppia di suolo rispetto a Germania o addirittura quattro volte quella della Francia.


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martedì 2 agosto 2011

Keynes Is Back

Dai quotidiani del gruppo Athesis
http://www.larena.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/275638__ritorno/

E se fosse di nuovo Keynes a salvare gli Stati Uniti da quello che potrebbe rivelarsi (auguriamoci tutti di no) il loro tracollo economico? Per Robert Reich - ministro del Lavoro nel primo governo Clinton - la prima potenza economica al mondo, al fine di scongiurare questo possibile scenario, dovrà presto ritornare a un «patto sociale di base, secondo il quale gran parte di quello che l'economia produce viene distribuito al ceto medio, ai lavoratori. Con riforme ispirate a Keynes gli Usa potrebbero guardare al futuro con ottimismo. Prima, però, occorre interrompere quel culto del mercato imposto fin dall'era di Reagan e della Thatcher. Con queste due figure politiche, secondo Reich, la crescita dei salari si è fermata, la distribuzione del reddito è diventata sempre più diseguale e la domanda di consumo è stata sostenuta da una grande espansione nell'indebitamento delle famiglie.
Queste tesi sono contenute in Aftershock. Il futuro dell'economia dopo la crisi (Fazi Editore, 223 pagine) di Reich. Un libro che forse alcuni senatori americani e lo stesso Barack Obama dovrebbero prendere in mano e cominciare a leggere. Oggi, se non fosse stato raggiunto un accordo tra la Casa Bianca e il Congresso, l'America infatti sarebbe tecnicamente uno Stato fallimentare. E allora torniamo a quanto Reich scrive nella prefazione del suo saggio, dove parla anche del nostro Paese. «Sebbene gli eccessi finanziari siano stati la causa più immediata della crisi economica e della lenta ripresa successiva, il motivo di fondo è la crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza», sostiene l'autore. «Da decenni in Italia come negli Usa, i benefici della crescita economica vanno sempre di più ai cittadini più ricchi. Tra le economie avanzate, l'Italia è uno dei Paesi con il maggior livello di disuguaglianza dei redditi, subito dietro a Stati Uniti e Gran Bretagna».
Due dati su cui riflettere arrivano da Washington: alla fine degli anni Settanta l'1 per cento più ricco della popolazione degli Usa catalizzava meno del 9 per cento del reddito totale nazionale; nel 2007 l'1 per cento più ricco ne deteneva il 23,5 per cento, lo stesso dato registrato nel 1928.
«A meno che noi americani non affrontiamo di petto la profonda distorsione della nostra economia, questa continuerà a perseguitarci», sostiene l'ex ministro di Clinton. «Senza un sufficiente potere d'acquisto il ceto medio sarà incapace di sostenere una forte ripresa. Gli alti tassi potenziali di inoccupati e i salari bassi genereranno domande di cambiamento. La politica diventerà una gara tra riformatori e demagoghi».
Il punto allora è come passare da un circolo vizioso a un circolo virtuoso, come ripristinare il benessere diffuso necessario per la crescita e come ottenere la crescita necessaria per il benessere diffuso. La sfida, secondo Reich, è sia economica che politica. Occorre un'economia fondamentalmente nuova. Ma come arrivarci? E come sarà quando lo faremo? Reich risponde a questi due quesiti nella terza parte di Aftershock, proponendo «un programma pratico e fattibile» di dieci punti (tra i quali figurano l'introduzione di un'imposta inversa sul reddito, di aliquote marginali maggiorate per i ricchi, un sistema sanitario per tutti e i buoni scuola basati sul reddito familiare).
L'attuazione di questo piano, ammette lo stesso Reich, richiede però collaborazione a tutti i livelli della società. Non bisogna inoltre sottostimare l'insofferenza - già registrata negli anni Settanta - dei ceti imprenditoriali e finanziari per i vincoli che impone la regolazione pubblica dell'attività economica, ingrediente essenziale del «patto sociale».


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venerdì 29 luglio 2011

Smurf blue, but are they communist red?


From Washington Times:

"Sure, they look blue, but are the Smurfs closet Reds?

You remember the Smurfs: Blue skin, white caps and three apples high. Wanton berry junkies. A 1980s pop phenomenon. The adorable masters of the Saturday morning cartooniverse are back, the computer-generated titular attraction in a new movie opening nationwide Friday. As Papa Smurf and friends re-enter the cultural atmosphere, there’s no dodging the question: Are the Smurfs now, or they have ever been … communist?

A red — and blue — menace?

A crypto-Marxist cel escaping from history’s dustbin of discarded lies to reinspire a glorious people’s revolution, one seemingly innocuous cinematic adventure for children of all ages at a time?

“They have a dictatorlike leader, and they all have defined roles,” said Technorati.com editor Curtis Silver, who wrote about the psychology of the Smurfs for Wired magazine’s website. “When it comes to their day-to-day life, they’re like a Communistic group.”


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http://www.washingtontimes.com/news/2011/jul/27/sure-they-look-blue-but-are-the-smurfs-closet-reds/

mercoledì 27 luglio 2011

Paradossi comunisti cinesi

Dai quotidiani del gruppo Athesis, 27 luglio 2011

Nasceva 90 anni fa a Shanghai il Partito Comunista Cinese (Pcc). È da questa metropoli che Mao Zedong mosse i primi passi per poi, con la Grande Marcia, portare la Cina sulla via della rivoluzione. L'edificio in cui il 23 luglio 1921 i rappresentanti delle cellule comuniste fondarono il Pcc, all'interno dell'allora Concessione francese, è diventato un museo. Nel 1921 vi entrarono alla spicciolata 13 congiurati, tra cui Mao, che all'epoca aveva 28 anni.

Oggi arrivano frotte di cinesi, convogliati dall'agenzia di Stato Xinhua che lo considera la mecca del «turismo rosso» per il mercato interno. Dentro, domina la scena un diorama con figure di cera a grandezza naturale che ritrae lo storico Primo Congresso, con Mao al centro della scena. Ma l'atmosfera da cospirazione si respira piuttosto quando un raro visitatore (di solito il cronista straniero) scatta fotografie: è proibito.

Primo dei paradossi, Shanghai, la culla del comunismo asiatico, è la città-vetrina dell'attuale turbocapitalismo cinese. Secondo paradosso, in cerca di una spiegazione andiamo in un paese della Brianza, Besana, che ti accoglie con uno striscione: «Eugenio Corti Nobel». Il candidato («ma il premio non me lo daranno mai!» sorride) è uno scrittore novantenne tanto valoroso (27 edizioni del suo romanzo capolavoro, Il Cavallo Rosso) quanto ignorato. Il suo dramma Processo e morte di Stalin, all'epoca osteggiato parimenti da Dc e Pci, è stato rappresentato solo poche settimane fa, a Monza, protagonista Franco Branciaroli.

Nel comunismo Eugenio Corti si imbattè ragazzo, quando fu mandato a far la guerra in Russia, senza capirne niente, come i suoi coetanei cresciuti sotto il fascismo. Da allora capire è il suo scopo. Ha visto tante cose, anche quelle che sfuggivano ai sedicenti esperti. Come quando Le Monde negava «le voci» sulle stragi dei Khmer Rossi in Cambogia. Al brianzolo era bastato leggere i testi marxisti, e aver frequentato la Sorbona con Pol Pot, per capire quello che stava succedendo: l'applicazione letterale dell'utopia comunista. «Secondo Lenin, che si rifà a Marx, cinque sono le condizioni per cui una società possa essere "scientificamente" definita socialista: abolire la burocrazia, la polizia, l'esercito, dare a tutti lo stesso stipendio e portare lo Stato sulla via dell'estinzione. Dopo Stalin, la Russia abbandonò la via verso questa società ideale, risultata irrealizzabile». Pol Pot provava, semplicemente, ad attuare il piano senza fasi intermedie. Risultato: il maggior genocidio della storia, considerando i morti in proporzione all'esigua popolazione.

E la Cina? Deng, il successore di Mao, tutto ha rovesciato, ma non l'ideologia. Il marxismo-leninismo è dottrina di Stato e il Pcc ha il potere. Secondo l'ex corrispondente da Pechino per il Financial Times, Richard McGregor, autore di The Party (Allen Lane, 2010), Lenin individuerebbe nel Pcc il suo copyright. La Cina moderna, scrive McGregor, «gira ancora su un hardware sovietico». Ma come possono esistere contemporaneamente il potere comunista e la, relativa, libertà d'impresa? «Perché altrimenti potrebbe cadere a pezzi tutto», spiega Corti, ricordando la fine dell'Unione Sovietica. «In Cina, piuttosto, siamo arrivati a una sorta di fascismo». Dittatura politica, ma senza freni all'economia. «Dai tempi di Mao, è tramontata l'idea di poter cambiare la coscienza delle persone. Quando hanno visto che non accadeva, hanno continuato a insistere solo con la repressione. Se Stalin ha ucciso "soltanto" 60 milioni di suoi compatrioti, Mao, secondo l'autorevole gesuita e sinologo ungherese Lazlo Ladani, oltre 150 milioni».

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martedì 19 luglio 2011

Il successo di Apple

Da Reuters
http://www.reuters.com/article/2011/07/19/us-apple-idUSTRE76I0KW20110719:

"Blockbuster sales of the iPhone and strong Asian business again helped Apple Inc crush Wall Street's expectations, driving its shares up more than 7 percent to record highs.

Sales of its iconic products far outpaced forecasts, helping drive a near-doubling of revenue in the fiscal third quarter. Its shares leapt to a high of $405 after a brief after-hours trading suspension.

Apple sold 20.34 million iPhones during the quarter versus an expected 17 million to 18 million, which analysts say helped it vault past Nokia and Samsung Electronics to become the world's biggest smartphone maker".

e a proposito del mercato asiatico:

"ASIA ON FIRE

The Cupertino, California company said its fiscal third-quarter revenue rose to $28.57 billion, trouncing the average analyst estimate of $24.99 billion, according to Thomson Reuters I/B/E/S.

Oppenheimer attributed the big margin boost to higher sales of the iPhone, particularly in Asia. International sales accounted for 62 percent of the quarter's revenue.

Executives told analysts they were particularly optimistic about China, where Apple was only "scratching the surface." Asia Pacific revenue more than tripled to $6.3 billion in the quarter".

giovedì 14 luglio 2011

Cosa tiene accese le stelle


Dall'articolo dei quotidiani del gruppo Athesis
http://www.larena.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/269916__se_torni_a_guardare_in_alto_vedrai_che_ci_sono_le_stelle/

Se torni a guardare in alto vedrai che ci sono le stelle


S'intitola Cosa tiene accese le stelle (Mondadori, 130 pagine) l'ultimo libro del direttore della Stampa, Mario Calabresi. Dopo La fortuna non esiste (Mondadori, 2009), una raccolta di storie sulla frontiera e sul sogno americani, Calabresi volge lo sguardo all'Italia. Il libro nasce per reazione alle lettere che Calabresi riceve ogni giorno dai lettori: parlano di un'Italia in declino, senza speranza. È vero che siamo un Paese così? La risposta di Calabresi è un molto ragionato no.
È vero che in questa Italia del nuovo millennio, nel Paese che ha compiuto 150 anni, l'umore più diffuso è lo scoraggiamento accompagnato dal disincanto. Viviamo, scrive Calabresi, spaventati, impauriti, con il terreno che ci frana sotto i piedi. Però ci dimentichiamo di tutta la strada che abbiamo percorso. «Siamo davvero sicuri», si chiede Calabresi, «che ci sia stata una mitica età dell'oro da piangere? Guardo al secolo scorso e vedo guerre, macerie, sterminii, odio ideologico, giovani che si sprangano, terrorismo, stragi, iniquità, disoccupazione, inflazione alle stelle e ingiustizie assortite. Sento rimpiangere i tempi dell'etica, della bella politica, di una classe dirigente virtuosa e mi viene sempre in mente la stessa scena: il funerale di Giorgio Ambrosoli, a cui non partecipò nessun rappresentante delle istituzioni».
Il direttore della Stampa non nasconde il fatto che oggi viviamo tempi cupi: la crisi economica si sta mangiando i risparmi delle famiglie e sicurezze costruite in generazioni, l'Italia scivola sempre più verso posizioni di irrilevanza, la nostra crescita è risicata, l'offerta di lavoro è stentata e la precarietà è diventata ormai una regola. L'autore se la prende con la politica («completamente incapace di alzare lo sguardo, indicare un progetto, proporre vie d'uscita») e, rivolto al lettore, afferma: «Tutto questo non deve impedirci di vedere cosa abbiamo conquistato nel tempo, cosa siamo e cosa potremmo diventare».
Per riprendere coraggio, Calabresi si rimette a viaggiare nella memoria. Ad aiutarlo ci pensano l'attrice Franca Valeri, l'oncologo Umberto Veronesi, il presidente dell'Inter Massimo Moratti, l'attore Roberto Benigni e il cantante Lorenzo Cherubini, e anche persone meno note come il direttore di Google Italia Stefano Maruzzi, gli ideatori della gelateria biologica Grom, Federico Grom e Guido Martinetti, e una studentessa di origine marocchina, Amal Sadki. L'ultimo incontro del libro è con una persona «abituata a guardare lontano, a scrutare l'orizzonte e oltre il tempo presente»: l'astrofisico Giovanni Bignami, ex presidente dell'Agenzia spaziale italiana. «Abbiamo bisogno di grandi progetti», dice, «di grandi visioni e di stimolare la fantasia. Dobbiamo tornare ad avere fame di avventura e di scoperte. Dobbiamo ricominciare a guardare in direzione delle stelle, perché significa alzare la testa, avere la vista lunga e immaginare altri mondi».


Simone Incontro

martedì 12 luglio 2011

WHY ITALY? (Video)

La spiegazione del Financial Times

http://video.ft.com/v/1048076129001/Why-Italy-


"Italy's 10-year bonds yields have been pushed to 5.8 per cent for little good reason. Lex's John Authers and Vincent Boland explain that the solution to this latest bout of sovereign debt contagion lies not in Italy but in dealing toughly with Greece's debt"

lunedì 11 luglio 2011

Il polo conquista la Cina

Dal sito della Cnn

http://edition.cnn.com/2011/WORLD/asiapcf/07/11/china.polo/index.html?hpt=hp_c2

Il polo - e non più il golf - sta conquistando i ricchi cinesi

"As golf loses its luster as a marker for wealth and status in China, polo and equestrian events are being groomed as the new exclusive pursuit for the country's super rich.

Polo clubs have been in China since 2004, but the operation in Tianjin is just the latest, and currently most opulent, of the new clubs embracing horse sports as a way to corral China's "high net worth individuals."

Playing golf, no one else sees you
--Harvey Lee, Vice Chariman, Tianjin Goldin Metropolitan Polo Club

"Playing golf, no one else sees you," says Harvey Lee, vice chairman of Goldin Metropolitan Polo Club.

"In China for now a lot of people will enjoy watching polo, not many will ride and play."

The club is looking for members and patrons who can afford to buy a polo team and keep horses at the club's stables."

domenica 10 luglio 2011

Il Sud Sudan secondo l'erede di Comboni


(dai quotidiani del gruppo Athesis)

Traguardo storico dopo la lunga guerra Sud Sudan
una nazione
che vive
di speranza

Simone Incontro

Il vescovo comboniano Mazzolari benedice il nuovo Stato: «L'Italia dovrebbe formare i leader per aiutare l'indipendenza»

Il vescovo comboniano Cesare Mazzolari, bresciano, tra il suo popolo a Rumbek, nel Sud Sudan.

Rappresentanti di Stato da tutto il mondo erano a Juba per celebrare l'indipendenza della nazione africana numero 54, la Repubblica del Sud Sudan. «Nasce un nuovo Stato libero e genuinamente africano: freschezza, rischio e povertà».

Lo dice monsignor Cesare Mazzolari, bresciano, classe 1937, vescovo di Rumbek nel Sud Sudan, missionario in Africa dal 1981. Ieri a Rumbek ha benedetto il nuovo Stato con queste parole: «O Signore, rimani con noi e rendici capaci di ricostruire le mura della nostra Gerusalemme che è la nostra nuova Repubblica del Sud Sudan».

Avevamo incontrato il missionario, sacerdote comboniano dal 1962, a Verona, alla casa madre dei comboniani. Una puntata rapidissima, prima di tornare in Africa. A Enzo Biagi, che lo intervistava nel 1999, il comboniano disse: «Ho promesso alla mia gente che morirò in Sudan perché sono uno di loro. Non lascerò più il Paese, se non per chiedere aiuti e per cercare altri missionari».

Che cosa significa oggi essere comboniano?
San Daniele Comboni, quando era nella mia attuale diocesi, nel 1856-1858, ci ha insegnato che il missionario è colui che è capace di vivere di fede senza aspettarsi il successo immediato. Noi mettiamo le fondamenta e poi verrà qualcuno che costruirà i muri. Comboni diceva: «Io muoio, ma la mia opera non morirà». Questo è il testamento di ciascun comboniano. Vivere di speranza.

Lei è sempre stato un assertore dell'indipendenza del Sud Sudan, cristiano e animista, dal Nord, musulmano. Che cosa ha rappresentato il referendum di gennaio?
È stato un mezzo miracolo. Obama l'ha considerato uno degli eventi più importanti per la libertà. Un atto a cui Dio ha contribuito. Questo popolo, come quello del Vecchio Testamento, ha invocato la misericordia di Dio. Abbiamo pregato e pregato perché Dio avesse misericordia di un popolo che aveva sofferto così a lungo.

Il Nord, guidato dal ricercato dell'Aja per i crimini di guerra Darfur, Omar al Bashir, come ha reagito?
Khartoum non si aspettava una decisione così determinata. Vorrebbero rovinarla, ma il Sud non accetta provocazioni per un'altra guerra. Il nostro popolo del Sud ha avuto 22 anni di guerra, ha sofferto la perdita di oltre due milioni di abitanti, per la maggior parte civili. Un proverbio congolese dice: «Quando due elefanti lottano, è l'erba che ne va di mezzo». I due elefanti erano il Nord e il Sud. Chi ha sofferto è stata la popolazione inerme.

In che modo la gente del Sud ha vissuto i giorni del referendum?
Già alle quattro di mattino del primo giorno di voto, la gente era fuori per strada a pregare, cantare e ballare. Era una festa, qualcosa che arrivava genuinamente dal cuore dei sudsudanesi. Nella prima notte di voto un'osservatrice internazionale dell'Onu si è commossa davanti a questa celebrazione.

Dopo la lunga festa, la storica dichiarazione d'indipendenza. Che cosa accadrà poi?
Il presidente Salva Kiir, secondo la nuova costituzione temporanea, governerà per i prossimi quattro anni. Avrà il potere di cambiare tutti i funzionari dello Stato e i governatori. C'è un po' di tensione perché la costituzione temporanea è stata messa assieme a porte chiuse. Non c'è stata la partecipazione del popolo e anche la Chiesa si è sentita lasciata fuori. È salito inoltre il livello del tribalismo.
Il bisogno più grande del Sudan è l'integrazione dei diversi gruppi, tra i Dinka, circa 3,5 milioni su una popolazione totale di circa 8 milioni, e gli altri. L'ultimo problema è quello delle persone che arrivano dal Sudan e che si sentono minacciate da Bashir. Il presidente sudanese vuole applicare la Shari'a, la legge islamica, in modo assoluto a tutti.

Il Nord Sudan ha il petrolio e un grande alleato, Pechino. La compagnia petrolifera di Stato cinese controlla i due più grandi consorzi energetici sudanesi. Ha costruito un oleodotto da 1.500 chilometri per collegare le due metà del Paese...
Con solo il 20 per cento dell'estrazione nazionale di greggio, il Sudan del nord dovrà rinunciare a parte delle rendite energetiche. Il Sud sarà però uno Stato senza sbocchi sul mare e dovrà trovare un accordo con Karthoum per trasportare il suo petrolio attraverso gli oleodotti del nord. La Cina ha convenienza che regni la pace e l'ordine.

Come si sta muovendo la comunità internazionale?
Gli Stati Uniti danno tanti soldi per l'esercito. Hanno ricostruito gli uffici del presidente. Il ministro delle Finanze e il capo di Stato del Sud Sudan fanno la spola Juba-Washington. L'Onu (con le sue agenzie Unicef e Undp) sta lavorando molto bene e il World Food Program sta funzionando alla perfezione.

E l'Italia che ruolo potrà giocare?
Roma ha una grande capacità di riconciliazione. Ho chiesto al sindaco di Verona, la città di Comboni, di gemellarsi con la mia diocesi. Alcuni parlamentari italiani, inoltre, hanno manifestato la volontà di riconoscere immediatamente il nuovo Stato e avviare relazioni diplomatiche. L'Italia potrebbe giocare un ruolo importante per formare i nostri leader.

sabato 9 luglio 2011

Adieu Yao Ming


Yao Ming si ritira

Yao Ming dice basta a 30 anni. Uno degli atleti cinesi più famosi al mondo ha deciso di ritirarsi dopo 486 partite.

Da Wikipedia:

"Yao Ming
(cinese semplificato: 姚明, pinyin: Yáo Míng; Shanghai, 12 settembre 1980) è un ex cestista cinese.

Alto 229 cm per un peso di 140,6 kg,[1] ricopriva il ruolo di centro negli Houston Rockets, squadra NBA."

Qui l'annuncio sul canale Nba
http://www.nba.com/video/channels/nba_tv/2011/07/08/20110708_yao_ming_retires.nba/index.html

Qui video tributo su YouTube

http://www.youtube.com/watch?v=TNxlZLq787g

Yao Ming su Wikipedia
http://it.wikipedia.org/wiki/Yao_Ming

L'addio di Yao Ming sul quotidiano (in lingua inglese) della sua città, lo Shanghai Daily
http://www.shanghaidaily.com/nsp/Sports/2011/07/09/Basketball%2Bstar%2BYao%2BMing%2Bplans%2Bto%2Bannounce%2Bretirement/

Un estratto dell'articolo dello Shanghai Daily:

"YAO Team is planning to announce Yao's retirement soon, a source close to Yao told Xinhua today.

In an email sent to Xinhua, Yao Team said Yao Ming is to hold news conference on July 20 about his "personal future development plan".

Earlier Yao Team confirmed Yao had decided to retire and was planning to announce his decision on August, but several American reports had released the news yesterday.

Another source of the Chinese Basketball Association (CBA) said Yao and his Yao Team came to Beijing two weeks ago to inform the Chinese basketball governing body his decision [...]

Yao, 31 year old, played nine seasons for the Rockets after he was drafted on No. 1 in 2002 by the Rockets.

The most famous Chinese sports star has been suffering from foot injuries in the past two seasons.

He was supposed to become free agent this summer after his contract is expired and the Rockets had tried to deal the 2.26m center last season".

venerdì 8 luglio 2011

The British Watergate?


Grossi guai a casa Murdoch?

Grande copertina di The Independent

Qui sotto ottimo articolo sul sito di Sky News

http://news.sky.com/skynews/Home/UK-News/News-Of-The-World-Daily-Star-Offices-Searched-As-Ex-Editor-Coulson-And-Royal-Reporter-Goodman-Held/Article/201107216026496?lpos=UK_News_Carousel_Region_0&lid=ARTICLE_16026496_News_Of_The_World%3A_Daily_Star_Offices_Searched_As_Ex-Editor_Coulson_And_Royal_Reporter_Goodman_Held

La disoccupazione negli Usa, tallone d'Achille di Obama?

Un dato che potrebbe costare la presidenza a Barack Obama

E' uscito oggi - ed è l'apertura di Drudgereport - e il dato dice: 9.2%
Oltre 14 milioni di americani e americane oggi sono senza lavoro

Qui sotto il link di Cnbc a riguardo:

http://www.cnbc.com/id/43682730

"The unemployment rate climbed to a six-month high of 9.2 percent, even as jobseekers left the labor force in droves, from 9.1 percent in May.

"[...]The message on the economy is ongoing stagnation," said Pierre Ellis, senior economist at Decision economics in New York. "Income growth is marginal so there's no indication of momentum [...]"


Qui il 3 giugno Christian Rocca aveva scritto: "Brutte notizie per Obama" e presentava un'importante tabella di Third Way

http://www.camilloblog.it/?s=obama+disoccupazione&cat=-1&year=&monthnum=

Da Camillo

"[...] Con la disoccupazione oltre il 5,4 per cento, Reagan a parte, si perdono le elezioni. La disoccupazione ai tempi di Obama è di quasi 4 punti oltre quel limite [...] Oggi gli economisti sono certi che da qui a novembre sarà impossibile scendere al 5,4 per cento [...]".

Nessun presidente in carica (che corre per la rielezione) è riuscito a farsi rieleggere con tassi di disoccupazione così alti, dai tempi di FDR


Quelli che hanno perso

Ford (1976) 7.8%

Carter (1980) 7.5%

Bush Sr. (1992) 7.4%


Quelli che hanno vinto (ad eccezione di Reagan sono tutti sotto il 5.4%)

Reagan (1984) 7.2%

Bush Jr (2004) 5.4%

Clinton (1996) 5.4%

Nixon (1972) 5.3%

Johnson (1964) 4.8%

Eisenhower (1956) 4.3%

Truman (1948) 3.8%


Obama come Reagan? Tra poco più di un anno lo sapremo...

Simone Incontro