giovedì 13 ottobre 2011

Google Beats Street


Copertina colorata (ed è un'eccezione) per Drudgereport che riprende un interessante articolo apparso sul sito internet di Cnbc.
Il tema è il successo di Google:


Google earnings and revenue blew past expectations, sending its shares sharply higher in after-hours trading.

Google
Getty Images

Google shares

Google Inc
GOOG
558.99 10.49 +1.91%
NASDAQ
[GOOG 558.99 10.49 (+1.91%) ] finished the day at $558.99 and jumped more than 5 percent after-hours. (Click here for the latest after-hours quote.)

"Christmas came early for Google shareholders," said Colin Gillis, an analyst at BGC Partners. "It was a great beat on the bottom line. It's not necessarily because they are controlling expenses. It's because they are driving more revenue," he said.

Le scuse del numero uno di Blackberry

Dopo tre giorni di grandi problemi sembra essere tornato tutto in ordine per chi utilizza il Blackberry.

Il numero uno di Blackberry nel video (vedi link qui sotto) chiede scusa a tutti gli utenti che utilizzano il migliore smartphone al mondo per quanto riguarda il servizio di Push Mail


http://tv.repubblica.it/tecno-e-scienze/il-capo-di-blackberry-chiede-scusa-per-i-problemi-tecnici/78173/76563

La Vodafone nei giorni scorsi ha mandato più volte questo messaggio:

"Gentile cliente, Blackberry ci ha informato di nuovi disservizi sulla mail. I problemi sono indipendenti da Vodafone. La informeremo a problema risolto" (ps: La comunicazione di ripristino non mi è mai arrivata)

Guai in vista per mr. Blackberry?

mercoledì 12 ottobre 2011

Primarie repubblicane, si vota il 6 dicembre?

Primarie repubblicane, si vota il 6 dicembre?


Da http://www.sos.nh.gov/Why%20New%20Hampshire%20is%20First%2010.12.11.pdf

Documento molto interessante del Segretario di Stato del New Hampshire:

Why New Hampshire’s
Primary Tradition Is Important
By William Gardner, New Hampshire Secretary of State
October 12, 2011

martedì 11 ottobre 2011

Molinari & la New York tricolore


Dai quotidiani del gruppo Athesis

New York oggi si è svegliata italiana

di Simone Incontro

RADICI. Identità storica nel sogno americano Gli oltre tre milioni di newyorkesi di origine italiana festeggiano il Columbus Day. Dagli emigranti mazziniani, quanta strada

10/10/2011

Oggi è in festa la seconda città italiana al mondo: New York. Solo tra il 1900 ed il 1920 si contarono circa quattro milioni di italiani che misero piede a Ellis Island. Per decenni, il numero di coloro che a New York si potevano considerare italiani era superiore alla stessa popolazione di Roma. Il tricolore non passa di moda. Anche oggi la sfilata del Columbus Day sulla Fifth Avenue sarà aperta dai bersaglieri con il tricolore dal motto mazziniano «Dio e Patria»: la prima ondata di emigrazione italiana in America, nell'Ottocento, fu quella dei fuoriusciti politici.

Il Columbus Day è il momento in cui gli italiani di New York celebrano la loro identità. Sono in decine di migliaia a ritrovarsi all'incrocio fra la 47esima Strada e la Fifth Avenue per marciare verso nord, fino alla 72esima Strada, celebrando il giorno del 1492 in cui il navigatore genovese Cristoforo Colombo scoprì l'America. La festa italoamericana cade ogni secondo lunedì di ottobre, viene proclamata dal presidente degli Stati Uniti ed è celebrata in tutto il Paese.

«Se è vero che ogni gruppo etnico-religioso ha il giorno della propria parata a New York», scrive Maurizio Molinari nel suo ultimo libro Gli italiani di New York (Laterza, 267 pagine), «gli italiani si distinguono per due caratteristiche: la soverchiante presenza nei corpi di polizia, simbolo d'integrazione raggiunta, e le macchine d'epoca, in gran parte Ferrari e Maserati, considerate il fiore all'occhiello del Made in Italy». Molinari, corrispondente a New York per La Stampa, quattro anni dopo Gli ebrei di New York (sempre edito da Laterza), sposta la sua attenzione sugli italiani che vivono nella Grande Mela.

Ne esce un ritratto della più grande città italiana degli Usa: 3.372.512 newyorkesi di origine italiana, che rappresentano il 16% dei 21,2 milioni di abitanti della Grande New York, ovvero il primo gruppo etnico-linguistico nell'area urbana che include New York, Nord New Jersey e Long Island.

Chi sono gli italiani di New York e qual è il rapporto con la loro madrepatria? Parlano ancora l'italiano o lo hanno abbandonato definitivamente per l'inglese? Molinari cerca di rispondere a questi interrogativi e avverte fin dall'inizio il lettore, scrivendo che New York somma e sovrappone le identità italiane passate e presenti perché non tutti gli italiani che vi vivono condividono la stessa dimensione storica. Si passa dai top manager delle grandi banche d'affari, arrivati negli ultimi 20 anni, agli artigiani che confezionano dolci seguendo ricette che in Sicilia si tramandano da generazioni. Molinari accompagna i lettori nei luoghi immortalati in decine di romanzi e film, da dove però spesso usciva l'immagine di un popolo di mafiosi e cafoni. Oggi, con qualche eccezione, non c'è più razzismo antitaliano e sono cambiati i luoghi dove vivono i nostri connazionali. A partire dagli anni Cinquanta la Little Italy di Manhattan si è svuotata a favore di Brooklyn e, una generazione dopo, lo stesso spostamento in cerca di quartieri migliori ha portato gli immigrati di seconda e terza generazione a Staten Island e nel New Jersey. È sopravvissuta solo Arthur Avenue, nel Bronx, come roccaforte di italianità, che resiste ai nuovi arrivati albanesi e messicani. Ciò che continua a distinguere gli italiani di New York, secondo Molinari, è l'energia con cui difendono la loro identità. Si ritrovano infatti in una miriade di feste religiose, club e sodalizi, ognuno dei quali si richiama a un'origine geografica che va oltre le regioni e si declina in città, paesi, villaggi e frazioni urbane. Il risultato è un universo di voci e valori nel quale le contraddizioni fioriscono.

Continua
http://www.bresciaoggi.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/295641__new_york_oggi_si__svegliata_italiana/

giovedì 6 ottobre 2011

Sarah Palin non corre (per ora)


Con una lettera aperta indirizzata ai propri sostenitori, Sarah Palin ha annunciato mercoledì la sua decisione definitiva di non correre per la nomination repubblicana nel 2012.

La rinuncia della ex governatrice dell’Alaska mette con ogni probabilità la parola fine alla prima fase delle selezioni nel Partito Repubblicano a meno di tre mesi dall’avvio della stagione delle primarie.

Dal sito de La Stampa si legge inoltre che "la decisione è stata comunicata in anteprima al noto programma radiofonico conservatore condotto da Mark Levin il giorno successivo all’annuncio di Chris Christie, che, a sua volta, ha declinato i ripetuti inviti a entrare in gara e rimarrà, invece, al suo posto di governatore del New Jersey".

Sembra sempre più delinearsi una corsa a due: Rick Perry vs. Mitt Romney.

Steve Jobs, l'America che sogna e crea



Domenica 22 Marzo 2009

Simone Incontro

E' notte fonda a Shanghai quando saliamo sul taxi e l'autista, dopo qualche minuto, ci sorprende mostrandoci un telefonino: è il nuovo iPhone, il palmare della Apple. E' possibile che l'ultima diavoleria di steve jobs riesca a stregare un tassista cinese che lavora giornate intere per portarsi a casa un misero stipendio?

Ebbene anche lui, risparmiando, può usare il suo nuovo iPhone per navigare in Internet, ascoltare musica, scattare fotografie e parlare con gli amici. Anche lui pensa che quello che possiede non è un semplice cellulare, ma un oggetto di culto. E così vale per Apple II, l'iPod e iTunes.

L'artefice di tutte queste creazioni è Steve jobs, l'uomo che dagli anni Settanta a oggi ha rivoluzionato l'informatica, il cinema d'animazione e la musica digitale. E' lui l'imprenditore in grado di trasformare un'azienda sull'orlo della bancarotta in una macchina d'affari con 18 miliardi di dollari di liquidità e zero debiti.
E' lui il volto di quell'America descritta dal giornalista Fareed Zakaria nel libro L'era post-americana (Rizzoli, 2008): un'America, positiva, in grado di poter ispirare ancora il mondo intero. L'imprenditore californiano è il protagonista di una storia straordinaria, segnata da molti successi, ma impastata anche di sconfitte e dolore. Abbandonato dai genitori alla nascita - il padre era un professore siriano in California, la madre una studentessa - Jobs non ha mai avuto una vita facile: prima "derubato" dei suoi successi tecnologici da Bill Gates, poi cacciato dagli stessi manager che lui aveva chiamato a gestire la Apple e, di recente, il tumore al pancreas, proprio nel momento di una nuova apoteosi per l'incredibile successo dell'iPod.
Solo una volta, nel 2005, jobs ha rotto il riserbo sulla sua vita privata, con uno straordinario discorso davanti agli studenti di Stanford nel quale ha raccontato la sua infanzia difficile, l'incubo del cancro e il modo in cui, più di vent'anni fa, ha trasformato una sconfitta in energia creativa.
Sbattuto fuori dalla Apple, Jobs ha rischiato di perdersi, ma poi ha reagito: «Ho ricominciato daccapo e sono entrato nel periodo più creativo della mia vita. Senza quella sconfitta non ci sarebbe stata la Pixar né la NeXT, né avrei incontrato Laurene e oggi non avrei una splendida famiglia con quattro figli».
Jobs ha lasciato gli studenti con lo slogan: «Stay hungry, stay foolish», qualcosa come «Abbiate sempre fame di conoscere e sperimentare, siate anticonformisti».
Jobs ha dimostrato queste carte anche una mattina del 1997, quando l'amministratore delegato della Apple Gil Amelio convoca il capo operativo dell'azienda, allora in crisi profonda e lo mette alla porta. Lo stesso giorno torna al comando jobs, l'uomo che nel 1976 ha fondato la società in un garage della Silicon Valley, e, dalla quale, dopo aver conseguito in pochi anni straordinari successi è stato defenestrato dieci anni dopo.
Tutti i dirigenti della Apple ricordano bene quella mattina di luglio: Jobs si presenta con scarpe da ginnastica, la barba non fatta da qualche giorno e pantaloni corti. Simon e Young, gli autori di iCon, riportano che Jobs convoca i capi area con l'aria di uno che voleva continuare un lavoro lasciato a metà la sera prima e chiede loro a bruciapelo: «Cos'è che non funziona in questo posto?».
Alla seconda risposta impacciata interrompe l'interlocutore urlando: «I prodotti! I prodotti non attirano, non sono sexy, fanno schifo!».
In poco tempo Jobs cambia il destino della Apple, grazie anche alle tecnologie di NeXT, l'azienda che lui stesso aveva fondato durante l'"esilio", mentre in parallelo, faceva crescere anche la Pixar, la società cinematografica di successo dell'animazione digitale (Toy Story, Nemo, Monsters & Company fino agli Incredibili e a Cars). Ora, dopo più di dieci anni, l'unica incognita della Apple è legata alla salute del suo fondatore, apparso visibilmente dimagrito.

Il 5 gennaio scorso
jobs ha detto, infatti, di essere affetto da uno squilibrio ormonale. Pochi giorni più tardi ha reso noto di volere prendere una pausa dal lavoro di cinque mesi e le uniche parole che ha detto sono state: «Perché non mi lasciate in pace? Perché tutto questo è così importante?».

mercoledì 5 ottobre 2011

Perry's Back?


Lo davano già per morto (politicamente). Ed ecco qui la notizia più importante della settimana per quanto riguarda i Repubblicani.

Rick Perry ha raccolto un sacco di soldi per la sua campagna elettorale: ben 17 milioni di dollari in meno di 50 giorni.

Da Drudge Report:

EXCLUSIVE: Republican White House hopeful Rick Perry raised over $17 million in 49 days, DRUDGE has learned. $347,000 per day; 20,000 unique donors from all 50 states, DC, Puerto Rico, and Guam. With more than half of donors living outside of Texas... Developing...

NOTA: Karl Rove, lo stratega delle campagne elettorali di George W. Bush diceva: "Per vincere le elezioni servono tre cose: soldi, soldi e soldi"


lunedì 3 ottobre 2011

E' da prima

http://www.bresciaoggi.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/293519___da_prima/


È DA PRIMA
MEDIA. Al festival di «Internazionale» dibattito sul futuro dei giornali
«Page One», film-verità sul «New York Times». Tempi duri per l'informazione: internet galoppa, ma a dirla con Humprey Bogart c'è sempre «la stampa, bellezza»
03/10/2011
Zoom Foto
Il nuovo grattacielo del New York Times, progettato da Renzo Piano

Simone Incontro
FERRARA


Nessuno è intoccabile, e dopo il crollo di colossi della finanza, considerati «troppo grandi per fallire», come Lehman Brothers e Bear Stearns, anche il New York Times, il colosso del giornalismo, fa i conti con la crisi.

Arthur Ochs Sulzberger Jr. presidente della casa editrice, nel 2007 al forum di Davos affermò di non essere affatto sicuro che nel giro di cinque anni ci sarebbe stato ancora un Times di carta. Davvero? Il regista Andrew Rossi ha ripreso con le telecamere per un anno intero quello che è considerato il tempio del giornalismo mondiale.

Il risultato è il documentario Page One: A Year Inside the New York Times, presentato in anteprima nazionale al Festival Internazionale a Ferrara, e in uscita in dvd nel 2012 con Feltrinelli.

La quinta edizione del festival di giornalismo organizzato dal settimanale Internazionale e dal Comune ha visto 63mila presenze, con Arundhati Roy e John Berger protagonisti dell'attesissimo incontro finale, star del giornalismo internazionale come Jason Burke e Natasha Walter, personaggi come il direttore generale di Greenpeace International Kumi Naidoo, il blogger cinese Michael Anti, Horacio Verbitsky, Pepe Escobar, Alma Guillermoprieto.

Il film Page One permette un inedito accesso al lavoro nella redazione della «Gray Lady», la Signora in grigio, com'è soprannominato il NYT, e racconta dall'interno come si sta trasformando il sistema dell'informazione nel momento di maggiore incertezza: internet sta superando la carta stampata come principale fonte di notizie. Giornalisti come il blogger Brian Stelter, l'inviato di guerra Tim Arango e il veterano David Carr raccontano la metamorfosi del mestiere mentre il loro stesso giornale lotta per restare in vita e i loro caporedattori si confrontano con le sfide poste da Wikileaks, Twitter e i tablet.

IL DOCUMENTARIO di Andrew Rossi permette di vedere l'interno del grattacielo progettato da Renzo Piano e soprattutto la squadra di fuoriclasse del Times. Uno di questi è Bill Keller, direttore del principale quotidiano della Grande Mela da luglio 2003 a settembre 2011. In questi anni aveva risollevato il giornale dagli scivoloni del predecessore — gli articoli copiati di Jayson Blair, quelli che savano per buone le informazioni ufficiali sulle presunte «armi di distruzione di massa in Iraq» — ed è riuscito a collezionare scoop e premi Pulitzer.

Ma i morsi della crisi si sono fatti sentire. In un solo anno cento giornalisti, su un totale di 1.250, hanno dovuto abbandonare il Times, la tiratura è in calo, il fatturato è sprofondato e la pubblicità ha continuato a essere latitante. Internet, in questi anni, ha messo a soqquadro l'editoria americana.

Tutto sembrerebbe dare ragione alla lunga lista dei profeti che hanno annunciato un lento e inesorabile declino della carta stampata. Non tutti però hanno indovinato. Bill Gates, per esempio, nel 1990 aveva predetto la fine dei giornali di carta entro la fine del secolo. Nel 1993 lo scrittore Michael Crichton aveva dato dieci anni di vita ai giornali tradizionali, definiti mediasauri, evocando il suo fantascientifico bestseller. Pende come una spada di Damocle la profezia di Philiph Meyer, studioso americano dell'editoria, che ha previsto «l'ultima copia del New York Times» nel 2043.

Ma non è detto che allora non riecheggi ancora la frase di Humprey Bogart a fianco delle rotative: «È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente». La neodirettrice Jill Abramson, la prima donna a ricoprire il ruolo nei 160 anni di vita del più prestigioso quotidiano al mondo, avrà il difficile compito di guidare l'evoluzione del Times in una testata poliedrica, multimediale e sempre votata all'eccellenza giornalistica. Jill Abramson, premio Pulitzer con un passato di reporter investigativa ha studiato a lungo gli aspetti tecnici del quotidiano digitale e l'integrazione fra scrittura online e quella sul giornale di carta. Il sito internet del Times è sempre il più visitato al mondo — 31 milioni di visitatori al mese — ma nel grattacielo progettato da Renzo Piano si lavora perché questo sia a vantaggio e non a scapito del giornale di carta: un milione di lettori al dì, a partire dalle 50 copie recapitate ogni mattina all Casa Bianca.


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http://www.bresciaoggi.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/293519___da_prima/

domenica 2 ottobre 2011

Obama Fried Chicken (made in China)


Is Obama abandoning his bid for a second term in the White House and is giving Colonel Sanders a run for his money by opening a chain of fried chicken joints?

Now that's change you can't really believe in.

But in Beijing, China, a restaurant is actually calling itself OFC with a logo that looks alarmingly like the President dressed in the colonel's clothes.

Internazionale Ferrara 2011

Internet come si usa in Cina Tutti i siti in copia censurata


INFORMAZIONE. Denuncia di un blogger al festival di Ferrara
02/10/2011

Simone Incontro
FERRARA

Vecchio e nuovo giornalismo a confronto al Festival di Internazionale a Ferrara. Nel nome di Anna Politkovskaja, martire russa della carta stampata, si premia infatti un blogger come Annaa Hossam el Hamalawy, giornalista egiziano fondatore di Arabwy.org.

El Hamalawy ha raccontato la primavera araba sul web, ma non si fa illusioni sul potere dell'informazione se mancasse «la solidarietà dei cittadini liberi del mondo». Poche illusioni sulla stessa efficacia di internet esprimono il giornalista e blogger cinese Michael Anti (che si firma così, all'occidentale, ma il nome in cinese suonerebbe An-ti: di pace) e il reporter investigativo bielorusso Evgeny Morozov, autore del libro The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom.

Internet? In Cina «è una fantasticheria», denuncia Anti, «un'illusione per i milioni di navigatori che trovano nel web, al posto dei social network originali, esatte copie collocate in server cinesi. In questo modo il governo controlla il flusso di informazioni». Anche in Occidente, dice Morozov, le «lodi incondizionate a internet» fanno comodo a governanti pronti a minare la democrazia. Perché l'informazione temuta dal potere resta quella di cronisti all'antica, schierati sul posto: come al G8 di Genova nel 2001.

«Dovevano cadere molte teste e mi pare che sia mancata un'analisi approfondita da parte della politica e dei movimenti», ha affermato in proposito delle violenze Eric Jozsef di Libération. Ma invece di stare ai fatti «si è originata una retorica che non ha permesso di individuare le responsabilità».