mercoledì 27 luglio 2011

Paradossi comunisti cinesi

Dai quotidiani del gruppo Athesis, 27 luglio 2011

Nasceva 90 anni fa a Shanghai il Partito Comunista Cinese (Pcc). È da questa metropoli che Mao Zedong mosse i primi passi per poi, con la Grande Marcia, portare la Cina sulla via della rivoluzione. L'edificio in cui il 23 luglio 1921 i rappresentanti delle cellule comuniste fondarono il Pcc, all'interno dell'allora Concessione francese, è diventato un museo. Nel 1921 vi entrarono alla spicciolata 13 congiurati, tra cui Mao, che all'epoca aveva 28 anni.

Oggi arrivano frotte di cinesi, convogliati dall'agenzia di Stato Xinhua che lo considera la mecca del «turismo rosso» per il mercato interno. Dentro, domina la scena un diorama con figure di cera a grandezza naturale che ritrae lo storico Primo Congresso, con Mao al centro della scena. Ma l'atmosfera da cospirazione si respira piuttosto quando un raro visitatore (di solito il cronista straniero) scatta fotografie: è proibito.

Primo dei paradossi, Shanghai, la culla del comunismo asiatico, è la città-vetrina dell'attuale turbocapitalismo cinese. Secondo paradosso, in cerca di una spiegazione andiamo in un paese della Brianza, Besana, che ti accoglie con uno striscione: «Eugenio Corti Nobel». Il candidato («ma il premio non me lo daranno mai!» sorride) è uno scrittore novantenne tanto valoroso (27 edizioni del suo romanzo capolavoro, Il Cavallo Rosso) quanto ignorato. Il suo dramma Processo e morte di Stalin, all'epoca osteggiato parimenti da Dc e Pci, è stato rappresentato solo poche settimane fa, a Monza, protagonista Franco Branciaroli.

Nel comunismo Eugenio Corti si imbattè ragazzo, quando fu mandato a far la guerra in Russia, senza capirne niente, come i suoi coetanei cresciuti sotto il fascismo. Da allora capire è il suo scopo. Ha visto tante cose, anche quelle che sfuggivano ai sedicenti esperti. Come quando Le Monde negava «le voci» sulle stragi dei Khmer Rossi in Cambogia. Al brianzolo era bastato leggere i testi marxisti, e aver frequentato la Sorbona con Pol Pot, per capire quello che stava succedendo: l'applicazione letterale dell'utopia comunista. «Secondo Lenin, che si rifà a Marx, cinque sono le condizioni per cui una società possa essere "scientificamente" definita socialista: abolire la burocrazia, la polizia, l'esercito, dare a tutti lo stesso stipendio e portare lo Stato sulla via dell'estinzione. Dopo Stalin, la Russia abbandonò la via verso questa società ideale, risultata irrealizzabile». Pol Pot provava, semplicemente, ad attuare il piano senza fasi intermedie. Risultato: il maggior genocidio della storia, considerando i morti in proporzione all'esigua popolazione.

E la Cina? Deng, il successore di Mao, tutto ha rovesciato, ma non l'ideologia. Il marxismo-leninismo è dottrina di Stato e il Pcc ha il potere. Secondo l'ex corrispondente da Pechino per il Financial Times, Richard McGregor, autore di The Party (Allen Lane, 2010), Lenin individuerebbe nel Pcc il suo copyright. La Cina moderna, scrive McGregor, «gira ancora su un hardware sovietico». Ma come possono esistere contemporaneamente il potere comunista e la, relativa, libertà d'impresa? «Perché altrimenti potrebbe cadere a pezzi tutto», spiega Corti, ricordando la fine dell'Unione Sovietica. «In Cina, piuttosto, siamo arrivati a una sorta di fascismo». Dittatura politica, ma senza freni all'economia. «Dai tempi di Mao, è tramontata l'idea di poter cambiare la coscienza delle persone. Quando hanno visto che non accadeva, hanno continuato a insistere solo con la repressione. Se Stalin ha ucciso "soltanto" 60 milioni di suoi compatrioti, Mao, secondo l'autorevole gesuita e sinologo ungherese Lazlo Ladani, oltre 150 milioni».

Continua su http://www.larena.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/273881__paradossi/


Nessun commento:

Posta un commento